Testimonianze
Ho letto per la prima volta le poesie di Roberto Deidier nel Secondo quaderno italiano di poesia di Guerini e associati, dove era presente con una silloge intitolata Tra il corpo e il giorno.
La distanza di ascendenze e di orizzonti prossimi non mi ha impedito di riconoscere nella sua voce una comune necessità di confronto tra la parola quotidiana e l’intonazione poetica, una nuova esigenza di durata e definizione di quel margine del silenzio (il segreto della lingua, quando ha in sé il suo passato) che è condizione di ogni dire e di ogni ascolto. Qualche anno più tardi, dopo la lettura di Il passo del giorno, un libro di grande respiro e compiutezza, ho compreso che la distanza permaneva, però si faceva più chiara, più ricca di motivi, per me, di meditazione e confronto.
Il principale tra questi motivi è la relazione con il paesaggio, dove il luogo e l’io (il loro reciproco collocarsi) sono compresi in un’esperienza di incessante rimodellazione tra il fuori e il dentro della nostra mente.
Il paesaggio, nella poesia di Roberto Deidier, è offerto nel dispiegarsi del discorso (che pure rimane in prevalenza interiore). È un paesaggio che non viene attraversato solo spazialmente, ma nelle relazioni (di parole e immagini) che ne costituiscono la temporalità, quasi cogliendo dentro lo sguardo l’operare della memoria: noi vediamo questi luoghi, sono presenti, scorrono, oppure stanno, emplicemente qui, ma allo stesso tempo, per la forza che li nomina e insieme li evoca, sono anche nell’altrove della memoria, interrogano gli anni, le stagioni.
E questo avviene mediante la limitazione del verso alle funzioni indicate dal suo significato etimologico, ovvero come strumento di continua sospensione della prosa.
«L’acqua alle caviglie fa pesante il passo / e per l’andatura, / forzata come un sogno, / la meta resta in fondo, più distante»: una citazione - ad apertura di libro - è sufficiente per cogliere però un altro elemento operante: la forte selezione del lessico, sapiente e nel ritagliare le figure della contemporaneità sulla stoffa della tradizione.
Questo tipo di attenzione nella scelta delle parole, insieme con un fraseggio grammaticale apparentemente elementare e prosastico, si gioca però, sul piano dell’intonazione, con un dettato alto nella distribuzione e nella misura degli accenti.
Il risultato è quello di una poesia di ampia dicibilità, non lontana da un’espressione che potrebbe essere quotidiana, ma che rispetto a quest’ultima si pone, di fatto, in una chiara tensione, grazie alla fattura del verso, con la quale viene chiamata in gioco la memoria propria della lingua, il suo essere corpo del tempo. Si sente nelle poesie di Deidier che il presente è un luogo d’incontro di molti tempi vissuti e detti, luogo di somiglianze e sfasature, che ritrovano la loro verità in un ordine dove il dolore, la sorpresa o la gioia hanno preso forma.
(Gian Mario Villalta, testimonianza per Il passo del giorno, 1996)
La distanza di ascendenze e di orizzonti prossimi non mi ha impedito di riconoscere nella sua voce una comune necessità di confronto tra la parola quotidiana e l’intonazione poetica, una nuova esigenza di durata e definizione di quel margine del silenzio (il segreto della lingua, quando ha in sé il suo passato) che è condizione di ogni dire e di ogni ascolto. Qualche anno più tardi, dopo la lettura di Il passo del giorno, un libro di grande respiro e compiutezza, ho compreso che la distanza permaneva, però si faceva più chiara, più ricca di motivi, per me, di meditazione e confronto.
Il principale tra questi motivi è la relazione con il paesaggio, dove il luogo e l’io (il loro reciproco collocarsi) sono compresi in un’esperienza di incessante rimodellazione tra il fuori e il dentro della nostra mente.
Il paesaggio, nella poesia di Roberto Deidier, è offerto nel dispiegarsi del discorso (che pure rimane in prevalenza interiore). È un paesaggio che non viene attraversato solo spazialmente, ma nelle relazioni (di parole e immagini) che ne costituiscono la temporalità, quasi cogliendo dentro lo sguardo l’operare della memoria: noi vediamo questi luoghi, sono presenti, scorrono, oppure stanno, emplicemente qui, ma allo stesso tempo, per la forza che li nomina e insieme li evoca, sono anche nell’altrove della memoria, interrogano gli anni, le stagioni.
E questo avviene mediante la limitazione del verso alle funzioni indicate dal suo significato etimologico, ovvero come strumento di continua sospensione della prosa.
«L’acqua alle caviglie fa pesante il passo / e per l’andatura, / forzata come un sogno, / la meta resta in fondo, più distante»: una citazione - ad apertura di libro - è sufficiente per cogliere però un altro elemento operante: la forte selezione del lessico, sapiente e nel ritagliare le figure della contemporaneità sulla stoffa della tradizione.
Questo tipo di attenzione nella scelta delle parole, insieme con un fraseggio grammaticale apparentemente elementare e prosastico, si gioca però, sul piano dell’intonazione, con un dettato alto nella distribuzione e nella misura degli accenti.
Il risultato è quello di una poesia di ampia dicibilità, non lontana da un’espressione che potrebbe essere quotidiana, ma che rispetto a quest’ultima si pone, di fatto, in una chiara tensione, grazie alla fattura del verso, con la quale viene chiamata in gioco la memoria propria della lingua, il suo essere corpo del tempo. Si sente nelle poesie di Deidier che il presente è un luogo d’incontro di molti tempi vissuti e detti, luogo di somiglianze e sfasature, che ritrovano la loro verità in un ordine dove il dolore, la sorpresa o la gioia hanno preso forma.
(Gian Mario Villalta, testimonianza per Il passo del giorno, 1996)
"Qui l'intero è solo il mare."
È il verso centrale della poesia Giro di boa (pag.109).
La poesia comincia con: "Ora faccio da guida a me stesso/E insieme attraversiamo il solstizio/Con un minimo bagaglio d'impressioni,//Ma non imparo a calibrare i passi/Lungo il corridoio dell'estate:/Tra le due porte di corno e d'avorio/Non è poi tanta la distanza."
Versi che a ritmo discendente-dattilico, protendendosi dal novenario all'endecasillabo, tracciano un cammino di ritorno in cui l'io lirico si dimidia in viandante e guida.
Sentiero tortuoso, semi-oscuro, pericoloso tragitto dagli inferi della memoria e del sonno.
Rito di passaggio che, da un tempo a un altro tempo, da una stagione a un'altra (solstizio), da uno spazio chiuso, interno (corridoio), passando attraverso le porte del sonno, (dei sogni veri: corno e di quelli falsi: avorio; Virgilio, Eneide, l.VI), conduce a uno spazio aperto: il mare. "Qui l'intero è solo il mare": mare che ricompone in sé le dimidiazioni, riunifica e cancella le differenze. Non c'è più ritorno, memoria, passato: "Senza ritorno in pochi passano la punta/Dove le alghe s'aggrumano al sole,/Sanno che nessun'orma resta sulla rena,/Tranquilli vanno a un'altra spiaggia."
Poesia dell'acqua quella di Roberto Deidier (canali, fiumi, gore, fonti, scrosci di pioggia) e soprattutto del mare. Basta sfogliare alcuni titoli dell'Indice: Più a nord è ancora il mare, Dove l'argine diviene costa, Stanno tra noi un argine, un canale, Riflessi caldi delle pietre a riva, I passanti sul lungomare sono fermi, L'acqua alle caviglie fa pesante il passo, La risacca recita solitaria, Tirreno.
Paesaggi marini: sabbia, spuma, alghe, conchiglie, reti, agavi, venti, cieli, nubi, albe, d'estate ma soprattutto d'inverno. Le grida degli uccelli (uccelli d'acqua: gabbiani, cormorani, edredoni) e i loro voli, per gli antichi tramite cielo-terra e traccia da interpretare, in Deidier inquietano e movimentano le forme di questi paesaggi: "Sull'acqua increspata c'è un riflesso/Cui risponde il richiamo/Di uno stormo sparso, lingua di cielo/Che si sposta e di nuovo cambia forma" (pag.70).
Musica umbratile e vibrante d'acque e cieli, echi, riflessi in cui si riverberano e riecheggiano i classici antichi e i moderni.
E pure non è il mare eroico e scenografico di Omero e Virgilio, o quello elegiaco di Tibullo o Ovidio.
Né il mare panico e pagano, auto-celebrativo, dei demoni meridiani di D'Annunzio, o il padre severo, pietrificato e pietrificante, di Montale.
I nomi derivano da similari zone d'ombra ma non si ritirano dietro le cose come nelle marine di Stella variabile di Sereni, ma le oltrepassano. Oltre l'inquieta obbedienza al corso delle correnti, delle insenature, dei porti di Saba, da cui occhieggiano discretamente i miti mediterranei.
Un mare filtrato dal sonno e dai sogni.
Siamo nei paraggi del mare trasognato, onirico eppure lucido e pulsante, estraneo e materno, morto-vivo, calmo e inquieto, perturbante di Solaris di Tarkovsky.
Un'acqua-risacca-sabbia-luce che occulta e ritraendosi dissolve e si riformula: "Acqua nel sonno, questo sonno incerto/che stagna come la risacca/e risponde a una stanca fedeltà/dalla sponda che la luce sospesa/prosciuga e infine scopre/nell'arco di una prossima marea./Acqua che si ritira a consentire il viaggio predisposto dalla notte," (pag.64).
Poesia di confini e di traversate oltre i confini (tra mente e corpo, mare e costa, notte e giorno, sonno e veglia, morte e vita), di voli, di metamorfosi, di evanescenze.
Un destino che, partendo da Eraclito, Bachelard così suggerisce, per questo tipo di poesia dell'acqua e dei sogni: "On ne se baigne pas deux fois dans un même fleuve, parce que, déjà, dans sa profondeur, l'être humain a le destin de l'eau qui coule. L'eau est vraiment l'élément transitoire. Il est la métamorphose ontologique essentielle entre le feu et la terre. L'être voué à l'eau est un être en vertige. Il meurt à chaque minute, sans cesse quelque chose de sa substance s'écoule. La mort quotidienne n'est pas la mort exubérante du feu qui perce le ciel de ses flèches; la mort quotidienne est la morte de l'eau. L'eau coule toujours, l'eau tombe toujours, elle toujours en sa mort horizontale." (Gaston Bachelard, L'eau et les rêves, 1942, pag.13).
E dell'acqua l'opera di Deidier assorbe ed emana la stessa quieta, perturbante, enigmatica malinconia: "Une mélancolie sans oppression, songeuse, lente, calme." (Gaston Bachelard, L'eau et les rêves, 1942, pag.14). Come in questi versi: "Solo in questa penombra di vita/so riconoscere/il nostro semplice prestarci/sabbia e parole." (pag.39).
(Rinaldo Caddeo, recensione a Una stagione continua, 2002)
Vorrei articolare il mio intervento in tre punti. Il primo punto potrebbe essere quello del panorama della poesia adesso, nel momento in cui parliamo. Il secondo punto è parlare del libro di RobertoDeidier, Una stagione continua, perché riguarda anche il primo punto; infine vorrei leggere una poesia di Roberto, tra quelle più significative ai fini del mio discorso.
Il primo punto è quello sul panorama, ahimè. Intanto bisognerebbe decidersi a dire che non ci sono più generazioni poetiche. Non che non ne nascano; non ve ne sono più nel senso delle generazioni che c’erano nel Novecento, la prima, la seconda, la terza eccetera, le generazioni dei poeti che hanno anche espresso delle etichette, quelle che poi ritroviamo nelle antologie: cominciamo coi crepuscolari, ermetici, neorealisti, avanguardisti, e poi abbiamo qualche sobbalzo, perché dopo gli avanguardisti – ormai sono quarant’anni – in Italia c’è lo scandalo che non si sa più che cosa sia successo dopo.
O meglio, sappiamo benissimo che cosa è successo, ma è come se non ci fosse un regesto, mentre in Francia tutto questo c’è.
Poeti di trentacinque, quarant’anni spesso si trovano antologizzati insieme a tutti i grandi poeti precedenti. Qui da noi è molto difficile, a volte capita, ma è raro e quindi assistiamo alla fine delle generazioni, che ha prodotto la parola epigonismo.
Si dice, anche nel dibattito sui giornali, che i poeti di oggi sono tutti epigoni.
Vediamo un po’: epigoni di chi? Di Zanzotto? Forse sono tutti zanzottiani? Ma ne vedo pochissimi, di zanzottiani. Forse luziani? Pasoliniani, si diceva una volta? Anche sull’epigonismo bisognerebbe discutere, perché mentre sappiamo che Petrarca produsse tutta un’infinita miriade di petrarchisti fino ad arrivare a oggi, per quanto riguarda i poeti che ho nominato, Luzi Zanzotto eccetera, è molto difficile che possano produrre degli epigoni, nel senso usuale di questo termine.
Quindi non ci sono le generazioni e non ci sono nemmeno gli epigoni.
Ma allora che poesia si fa adesso, che poesia si è fatta in questi ultimi trenta-quarant’anni? Nel 1982 molto umilmente antologizzai in un libro quella che allora mi pareva la scuola romana di poesia. Il libro si intitolava L’io che brucia ed era un’antologia che andava da Corazzini, da tutti i poeti che erano capitati a Roma, pur non
essendo romani, come pure Palazzeschi, fino a Magrelli, a Veneziani, ai poeti più giovani di una scuola romana. Perché cito quel libro? Perché nell’introduzione a quell’antologia mi resi conto forse prima di altri che si trattava di una scuola senza maestri.
E come succede a scuola quando non c’è il maestro, gli alunni fanno parecchio chiasso, sono liberi. Diciamo che un po’ di questa libertà si respira nella poesia attuale, nel senso di una libertà non a briglia sciolta, ma di una varietà di verseggiamenti rispetto a prima.
Questa idea di una scuola senza maestro mi era rimasta impressa: non si tratta neanche più di scuola romana, ma di una scuola senza maestri tout court.
Se questo è il panorama, bisognerà ancora aggiungere la parola postmoderno.
Non ci sono più le generazioni, semmai si può parlare di epigonismo come dicono alcuni, tra cui lo stesso Raboni, a cui Berardinelli risponderà affermando che l’epigonismo non esiste. Si può quindi parlare di postmoderno, ma questa diventa un’etichetta troppo larga. Postmoderno sarebbe il poeta che
prende un po’ qui un po’ là, che fa un po’ Pasolini, un po’ Penna, un po’ Umberto Saba: un citazionista, qualcuno che prende da più parti senza avere una personalità autonoma, senza averne più o senza che sia possibile che ce l’abbia (questa è la teoria postmoderna).
Non è che non ci siano autori con personalità: la personalità postmoderna si sfalda in mille sfaccettature, in diverse personalità. Come quando si entra nel supermercato, dove andiamo tutti, negli enormi supermercati che hanno inventato adesso, dove non si fa soltanto la spesa ma si vive, e dentro ci
troveremo a destra il reparto cinese, poi il reparto australiano, poi tutto quello che si produce nel mondo, nel romanzo come nella poesia. Tutto questo senza uno stile, senza una tendenza predominante sull’altra, ma appunto una mezza specie di rete dove però il poeta non è più quell’individualità prepotente che era nel Novecento e che oggi sembrerebbe scomparsa.
Quindi un poeta come Roberto, come gli altri, ma forse lui più degli altri, trovandosi di fronte a una situazione di questo genere, cosa può fare se ha una sua sensibilità, una sua lingua particolare con cui esprimere le proprie poesie? Per esempio mi ricordo che la prima volta che incontrai Roberto si
parlò di Umberto Saba, che era un poeta di cui dieci anni fa non si parlava affatto, forse ora un po’ di più. Saba sembrava passato come una stella nel cielo, poi inabissata: nessuno andava più a leggere quella che sembrava una poesia facile, eravamo tutti presi dai neo-orfismi e da altre cose di questo genere. Dice molto bene Bandini nel risvolto a Una stagione continua, che peraltro è una raccolta di poesie uscite in altre edizioni di Roberto (c’è una data, 1986-1996), che al centro di
queste poesie c’è l’io senza nome e senza storia.
Può accadere che un io sia senza nome e senza storia? Ebbene sì, è quello che succede oggi. Sia chattando, per richiamare adesso cose troppo
comunicative, sia facendo qualsiasi altra cosa che si fa oggi, è sempre una maschera quella che appare, una piccola mascherina e quindi questo io è senza nome oppure con un nome falso. E poi è senza storia, ed è quello che preoccupa Roberto, che non ci sia una storia, quella con la Esse maiuscola; ma a volte, ed è ciò che più preme in questo libro, che non ci possa neanche più essere una storia personale, come se con l’eclisse della Storia (il mondo come era diviso nell’ultimo
periodo degli anni Ottanta, il crollo del muro di Berlino) si sia eclissata anche la possibilità di una storia personale. Cosa dice Roberto in queste sue poesie? Le prime poesie che colpirono me e anche gli altri recensori parlavano del sonno, della notte e del risveglio, soprattutto di questo passaggio dal sonno al risveglio. Altri poeti hanno toccato naturalmente questo argomento (mi veniva in mente che qualche volta persino Magrelli si era cimentato in questa idea del risveglio) ma in termini molto accademici, di distanza. Invece l’io che si addormenta e si risveglia in queste poesie è un io privato, flebile, che però c’è, come dice ancora Bandini: «Il titolo sotto il quale Roberto Deidier raccoglie le poesie scritte nell’arco di un decennio vuol porre l’accento sulla continuità di un esercizio rimasto fedele alle sue ragioni iniziali. E tuttavia sarà facile scorgere come si tratti della continuità di un cammino, di un “viaggio” appunto, che rivisita gli stessi luoghi e gli stessi momenti della propria ispirazione ma individua in essi, di volta in volta, nuovi sensi che si erano gelosamente sottratti allo sguardo del poeta».
Ecco, questo viaggio tocca i temi del risveglio, «che pone a contatto il corpo con le cose e il sonno che provvisoriamente le smarrisce».
Poi Bandini aggiunge che tutto questo si è ispessito, è cresciuto fino a caratterizzare « l’io “senza nome e senza storia” che «inspessisce la sua consistenza, l’anima carpisce ai siti della vita certificanti segreti non attraverso l’elegia della memoria ma per il costante, limpido interrogare e interrogarsi cui il poeta si affida». Bandini trova nelle poesie di Roberto una dimensione nuova, parla di etica, che in precedenza non mi pareva di avere scorto nelle recensioni.
Secondo me l’etica che c’è in queste poesie, l’io senza nome e senza storia, riguarda la paura, il timore che agita le poesie stesse: la paura quasi di essere scoperti, come se nel momento in cui ci si scopre ci sia un cecchino, come succede in America in questo momento, che può comunque annientarci.
Nel senso che il cecchino diventa la Storia, diventa la possibilità di avere una storia: a quel punto hai di fronte il cecchino, e allora devi lottare, o evitandolo, e in questo caso non lo puoi evitare, oppure devi fare in modo che questo cecchino non ci sia più.
Quest’etica a volte è tropo stretta e lo tiene fermo, non gli lascia la briglia sciolta come vorrebbe, o come il lettore vorrebbe: il senso della misura prevale in tutte queste poesie.
Ve ne leggo una, con cui chiudo invitandovi a leggerlo.
Si intitola Tirreno:
Ora non c’è nessun confine
Perché ogni confine è stabilito;
Ora non s’avvia alcun viaggio
Che non somigli l’arrivo alla partenza.
La notte passa i suoi segnali sopra il polo
E le risponde il giorno,
Estremi di una curiosa proporzione:
Recita il sonno da una parte
Il breviario dell’altra, e tutte
In quell’unisono non sanno più ascoltarsi.
Sta piovendo oltre l’oblò, sull’ala buia:
Scorre nebbia, più e meno densa,
Mentre l’emisfero si agita,
S’affida forse a questo grumo di cielo,
Che ha per flusso il rombo di un reattore.
(Renzo Paris, presentazione di Una stagione continua, 2002)
Il primo punto è quello sul panorama, ahimè. Intanto bisognerebbe decidersi a dire che non ci sono più generazioni poetiche. Non che non ne nascano; non ve ne sono più nel senso delle generazioni che c’erano nel Novecento, la prima, la seconda, la terza eccetera, le generazioni dei poeti che hanno anche espresso delle etichette, quelle che poi ritroviamo nelle antologie: cominciamo coi crepuscolari, ermetici, neorealisti, avanguardisti, e poi abbiamo qualche sobbalzo, perché dopo gli avanguardisti – ormai sono quarant’anni – in Italia c’è lo scandalo che non si sa più che cosa sia successo dopo.
O meglio, sappiamo benissimo che cosa è successo, ma è come se non ci fosse un regesto, mentre in Francia tutto questo c’è.
Poeti di trentacinque, quarant’anni spesso si trovano antologizzati insieme a tutti i grandi poeti precedenti. Qui da noi è molto difficile, a volte capita, ma è raro e quindi assistiamo alla fine delle generazioni, che ha prodotto la parola epigonismo.
Si dice, anche nel dibattito sui giornali, che i poeti di oggi sono tutti epigoni.
Vediamo un po’: epigoni di chi? Di Zanzotto? Forse sono tutti zanzottiani? Ma ne vedo pochissimi, di zanzottiani. Forse luziani? Pasoliniani, si diceva una volta? Anche sull’epigonismo bisognerebbe discutere, perché mentre sappiamo che Petrarca produsse tutta un’infinita miriade di petrarchisti fino ad arrivare a oggi, per quanto riguarda i poeti che ho nominato, Luzi Zanzotto eccetera, è molto difficile che possano produrre degli epigoni, nel senso usuale di questo termine.
Quindi non ci sono le generazioni e non ci sono nemmeno gli epigoni.
Ma allora che poesia si fa adesso, che poesia si è fatta in questi ultimi trenta-quarant’anni? Nel 1982 molto umilmente antologizzai in un libro quella che allora mi pareva la scuola romana di poesia. Il libro si intitolava L’io che brucia ed era un’antologia che andava da Corazzini, da tutti i poeti che erano capitati a Roma, pur non
essendo romani, come pure Palazzeschi, fino a Magrelli, a Veneziani, ai poeti più giovani di una scuola romana. Perché cito quel libro? Perché nell’introduzione a quell’antologia mi resi conto forse prima di altri che si trattava di una scuola senza maestri.
E come succede a scuola quando non c’è il maestro, gli alunni fanno parecchio chiasso, sono liberi. Diciamo che un po’ di questa libertà si respira nella poesia attuale, nel senso di una libertà non a briglia sciolta, ma di una varietà di verseggiamenti rispetto a prima.
Questa idea di una scuola senza maestro mi era rimasta impressa: non si tratta neanche più di scuola romana, ma di una scuola senza maestri tout court.
Se questo è il panorama, bisognerà ancora aggiungere la parola postmoderno.
Non ci sono più le generazioni, semmai si può parlare di epigonismo come dicono alcuni, tra cui lo stesso Raboni, a cui Berardinelli risponderà affermando che l’epigonismo non esiste. Si può quindi parlare di postmoderno, ma questa diventa un’etichetta troppo larga. Postmoderno sarebbe il poeta che
prende un po’ qui un po’ là, che fa un po’ Pasolini, un po’ Penna, un po’ Umberto Saba: un citazionista, qualcuno che prende da più parti senza avere una personalità autonoma, senza averne più o senza che sia possibile che ce l’abbia (questa è la teoria postmoderna).
Non è che non ci siano autori con personalità: la personalità postmoderna si sfalda in mille sfaccettature, in diverse personalità. Come quando si entra nel supermercato, dove andiamo tutti, negli enormi supermercati che hanno inventato adesso, dove non si fa soltanto la spesa ma si vive, e dentro ci
troveremo a destra il reparto cinese, poi il reparto australiano, poi tutto quello che si produce nel mondo, nel romanzo come nella poesia. Tutto questo senza uno stile, senza una tendenza predominante sull’altra, ma appunto una mezza specie di rete dove però il poeta non è più quell’individualità prepotente che era nel Novecento e che oggi sembrerebbe scomparsa.
Quindi un poeta come Roberto, come gli altri, ma forse lui più degli altri, trovandosi di fronte a una situazione di questo genere, cosa può fare se ha una sua sensibilità, una sua lingua particolare con cui esprimere le proprie poesie? Per esempio mi ricordo che la prima volta che incontrai Roberto si
parlò di Umberto Saba, che era un poeta di cui dieci anni fa non si parlava affatto, forse ora un po’ di più. Saba sembrava passato come una stella nel cielo, poi inabissata: nessuno andava più a leggere quella che sembrava una poesia facile, eravamo tutti presi dai neo-orfismi e da altre cose di questo genere. Dice molto bene Bandini nel risvolto a Una stagione continua, che peraltro è una raccolta di poesie uscite in altre edizioni di Roberto (c’è una data, 1986-1996), che al centro di
queste poesie c’è l’io senza nome e senza storia.
Può accadere che un io sia senza nome e senza storia? Ebbene sì, è quello che succede oggi. Sia chattando, per richiamare adesso cose troppo
comunicative, sia facendo qualsiasi altra cosa che si fa oggi, è sempre una maschera quella che appare, una piccola mascherina e quindi questo io è senza nome oppure con un nome falso. E poi è senza storia, ed è quello che preoccupa Roberto, che non ci sia una storia, quella con la Esse maiuscola; ma a volte, ed è ciò che più preme in questo libro, che non ci possa neanche più essere una storia personale, come se con l’eclisse della Storia (il mondo come era diviso nell’ultimo
periodo degli anni Ottanta, il crollo del muro di Berlino) si sia eclissata anche la possibilità di una storia personale. Cosa dice Roberto in queste sue poesie? Le prime poesie che colpirono me e anche gli altri recensori parlavano del sonno, della notte e del risveglio, soprattutto di questo passaggio dal sonno al risveglio. Altri poeti hanno toccato naturalmente questo argomento (mi veniva in mente che qualche volta persino Magrelli si era cimentato in questa idea del risveglio) ma in termini molto accademici, di distanza. Invece l’io che si addormenta e si risveglia in queste poesie è un io privato, flebile, che però c’è, come dice ancora Bandini: «Il titolo sotto il quale Roberto Deidier raccoglie le poesie scritte nell’arco di un decennio vuol porre l’accento sulla continuità di un esercizio rimasto fedele alle sue ragioni iniziali. E tuttavia sarà facile scorgere come si tratti della continuità di un cammino, di un “viaggio” appunto, che rivisita gli stessi luoghi e gli stessi momenti della propria ispirazione ma individua in essi, di volta in volta, nuovi sensi che si erano gelosamente sottratti allo sguardo del poeta».
Ecco, questo viaggio tocca i temi del risveglio, «che pone a contatto il corpo con le cose e il sonno che provvisoriamente le smarrisce».
Poi Bandini aggiunge che tutto questo si è ispessito, è cresciuto fino a caratterizzare « l’io “senza nome e senza storia” che «inspessisce la sua consistenza, l’anima carpisce ai siti della vita certificanti segreti non attraverso l’elegia della memoria ma per il costante, limpido interrogare e interrogarsi cui il poeta si affida». Bandini trova nelle poesie di Roberto una dimensione nuova, parla di etica, che in precedenza non mi pareva di avere scorto nelle recensioni.
Secondo me l’etica che c’è in queste poesie, l’io senza nome e senza storia, riguarda la paura, il timore che agita le poesie stesse: la paura quasi di essere scoperti, come se nel momento in cui ci si scopre ci sia un cecchino, come succede in America in questo momento, che può comunque annientarci.
Nel senso che il cecchino diventa la Storia, diventa la possibilità di avere una storia: a quel punto hai di fronte il cecchino, e allora devi lottare, o evitandolo, e in questo caso non lo puoi evitare, oppure devi fare in modo che questo cecchino non ci sia più.
Quest’etica a volte è tropo stretta e lo tiene fermo, non gli lascia la briglia sciolta come vorrebbe, o come il lettore vorrebbe: il senso della misura prevale in tutte queste poesie.
Ve ne leggo una, con cui chiudo invitandovi a leggerlo.
Si intitola Tirreno:
Ora non c’è nessun confine
Perché ogni confine è stabilito;
Ora non s’avvia alcun viaggio
Che non somigli l’arrivo alla partenza.
La notte passa i suoi segnali sopra il polo
E le risponde il giorno,
Estremi di una curiosa proporzione:
Recita il sonno da una parte
Il breviario dell’altra, e tutte
In quell’unisono non sanno più ascoltarsi.
Sta piovendo oltre l’oblò, sull’ala buia:
Scorre nebbia, più e meno densa,
Mentre l’emisfero si agita,
S’affida forse a questo grumo di cielo,
Che ha per flusso il rombo di un reattore.
(Renzo Paris, presentazione di Una stagione continua, 2002)
Devo dire ai nostri spettatori che tutti i nostri poeti hanno intuito il particolare legame che sussiste fra luce e ombra e hanno messo in evidenza la pregnanza nascosta del tema di stasera. Vorrei far notare infatti che non fra luce e ombra non vi è una opposizione simile a quella creata dal tema precedente dell’anima e del corpo. Il vero contrasto netto e irreparabile è quello fra la luce e la tenebra. Se siamo portati a vedere nella notte l’assenza della luce, l’ombra è qualcosa di diverso. Dalla semplice definizione di ombra come riflesso della luce possiamo far scaturire delle osservazioni interessanti. E’ grazie alla luce che l’ombra può esistere e lì dove c’è ombra non c’è assenza, ma presenza, oscura e intima presenza. Ciò che sta all’ombra o nell’ombra ha l’attitudine ad essere rivelato, può essere svelato anche se a prezzo di una continua ricerca. L’ombra è una traccia viva, l’orma di una vita che c’è ma non si vede, non è qualcosa di seppellito irrimediabilmente nell’oscurità. E’ così anche per i poeti l’ombra è il luogo in cui guardare per scoprire la luce, è l’oggetto da scrutare per intuire da dove venga. Forse per questo non solo i mistici, ma anche molti scienziati hanno usato dei sinonimi della parola ombra per descrivere le zone ignote del sapere dentro cui si muovevano alla ricerca della scoperta di una risposta sui segreti della natura.
Con Roberto Deidier torneremo invece ad assaporare la dimensione del vivere quotidiano, attraversato da qualche rivolo di smarrimento e di anelito passionale, ma articolato in modo sobrio e intenso tramite una pacata e imperturbabile attitudine della visione a fare luce, a ritrovare le tracce di cuciture slabbrate del paesaggio e della città, inaccessibili ad un occhio umano immerso nel caos e nella indifferenza. Un arte tenace e tranquilla della visione consente a Deidier di dirimere la confusione esistente fra luci e ombre inserendo in modo “luminoso” il suo sguardo e la sua vita dentro la realtà e creando una dialettica delicata e pacificatrice in cui la ricomposizione di armonie impossibili o dimenticate della natura agreste e della paesaggio moderno permettono alle stesse ombre interiori del poeta di trovare sfogo in una diversa, anche se sempre elegiaca,espansione del desiderio.
Sin dalla pubblicazione del suo primo libro Il passo del giorno edito da Sestante nel 1995 Roberto Deidier ha stimolato l’interesse degli amanti della poesia grazie ad uno stile ed una personalità che ha fatto della pacata e stabile visione della realtà uno dei suoi attributi principali e più seducenti. Oltre alla sua attività di poeta Deidier unisce anche una intensa attività di ricerca accademica sulla storia della poesia italiana contemporanea che ha ormai all’attivo degli studi fondamentali come Le forme del tempo, Guerini e Associati 1995),dedicato all’opera di Italo Calvino; L'officina di Penna (Archinto, 1997), poeta al quale si è intimamente legata la sua esperienza di poeta-docente grazie alla cura dei carteggi di Sandro Penna con Eugenio Montale (Lettere e minute 1932-1938, Archinto 1995) e con Umberto Saba (Lettere a Sandro Penna, Archinto, 1997). Pur insegnando Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi di Palermo Deidier ha resistito ad ogni tentazione di percorrere gli ideali di una poesia letteraria, avulsa dalla vita e dai palpiti dell’esistenza. Solo che questi palpiti sono da lui vissuti con un certo rigore che sa intessere le geometrie della visione cerchiando e disegnando con austerità fiammante anche i domini recalcitranti della passione. Ne è venuta fuori una poesia che non fugge dal chiaroscuro, ma che si mantiene “eticamente lucida” come ha detto con stringata precisione il poeta Fernando Bandini.
E non è un caso che è il legame tra sguardo e visione ad inaugurare la carriera poetica di Deidier che nel secondo libro Una stagione continua ha trascritto questa frase di Carlo Michelstaedter: Meglio non guardare dove si va che andare solo fin dove si vede. In Deidier il tema della luce coincide con quello della visione che cerca un punto di arrivo mantenendosi salda nei gorghi delle ombre della realtà che non sono per forza le ombre invisibili e spettrali, ma anche la confusione e il marasma della vita sociale o lo smarrimento e lo spaesamento della dimensione passionale. Questo smarrimento emerge da una bella poesia dal titolo La voce ottica tratta da Libro naturale (Edizioni dell'Ombra) edito nel 1999: «Era l’agitazione distratta dei lungofiume,/La fretta che accomuna i mezzogiorni:/Il tuo passo disegnava l’ombra/Di una falcata lunga sotto il sole./Era un bisogno, quella meta».
Mentre la confusione dell’esistenza sociale è evidente in un’altra poesia intitolata Il territorio: «So di vivere in luoghi che riconosco a stento/Quando ogni sera m'accosto allo stesso segnale/E qui al volante mi ricordo quale stagione/Vado vivendo per quanta luce mi riflette:/Sicure sono solo le sagome più strane/Parate d'improvviso lungo la corsia,/Ombre sulla retina di cani mal scampati/O guizzi di gatti e i loro campi di battaglia/ Al cielo delle costellazioni e delle antenne».
Come possiamo vedere Deidier interpreta il motivo della luce e dell’ombra in due modi ben configurati: da un lato egli, più che elaborare una poetica della luce anteposta all’ombra, elabora l’intreccio naturale fra luce e ombra che viene vissuto nel passo veloce di una persona che disegna l’ombra lunga di una falcata compiuta nella straripante e severa luce del mezzogiorno. Oppure nella seconda poesia dove lo spaesamento esistenziale viene tessuto all’interno della vita cittadina, della dimensione del guidare sulla cui greve ordinarietà il motivo della luce crea una ascesa verso spazi più liberanti che trasfigurano la visione. La poesia di Deidier è caratterizzata dalla strenua resistenza della visione circostanziata ma efficace, dalla serenità di una rassegnazione coltivata dentro il riparo dei sensi, come se il semplice potere della visione, della messa a fuoco o della illuminazione del non colto,del marginale, del plumbeo, fosse l’unico mezzo posseduto dal poeta per plasmare il reale e riportarlo ad una dimensione superiore.
Ne abbiamo dimostrazione nella poesia che dà il nome alla recente raccolta del 2002 Il primo orizzonte Edizioni San Marco dei Giustiniani.
Il primo orizzonte:
A un miglio da terra prima dell'alba/Solo questa fusoliera divide il cielo/Fino al primo fendente di sole./Così va disegnandosi il giorno:/Lo spettro lascia esistere crinali/ Lontanissimi e in quella distanza/ È quel che basta ad abbracciare il mondo,/ Questo giorno per noi tutti uguale./Fuori c'è il primo orizzonte,/ Dentro giacche, occhiali, giornali (Il primo orizzonte, p.80).
Qualcuno ha parlato di poesia del piccolo. La poesia intitolata Sosta:
Se un uccello all'improvviso taglia il quadro a mezz'aria, divide il cielo in due. A noi spetta sempre la parte più bassa, quella che ci fa lontani dalle stelle, a pronunciare ogni volta il desiderio d'essere altrove. Di questa contraddizione, il restare e il partire, si nutre ogni volta la nostra sorpresa d'esserci, ritmando una rassegnazione non passiva, e non sa neppure più essere attesa, ma limite oltre il quale è l'immaginazione. Leggere il mondo come unità è il solo modo di vedere oltre la siepe, cantando (Il primo orizzonte, p.67).
Le due dimensioni quella sociale e quella passionale sono confermate dalle poesie che Deidier ci leggerà stasera. Poesie dove appare una Sicilia mitica favoleggiata proprio attraverso i percorsi della visione dapprima offuscata dalle luci dell’autostrada, dal traffico delle macchine che vanno e vengono e che producono uno spaesamento interrotto dal viaggio della visione che accosta al marasma impersonale e innaturale della strada, la festa notturna dell’accendersi delle luci nei paesi della montagna. Questo grumo luminescente della sera spinge Deidier verso pensieri mitici che come in Giuseppe Conte, riportano la grecità nella terra di Sicilia dove il nostro poeta ormai vive e insegna da tempo. Questo sentimento della visione fa sì che una geometria lenta, pacata si espanda nella poesia di Deidier di modo che è l’acutezza della visione ad aprire la strada alla luce perchè è come se fosse lo sguardo del poeta in verità ad illuminare le cose e conferire ad esse un senso nuovo.
Roberto Deidier ci ha fatto navigare nel mare pacato e imperturbabile della visione che dona luce alle cose e che sa far venire fuori dalle ombre della psiche e della realtà un contrappunto raffinato e sottile di espansioni e di restringimenti dai quali l’esistenza riesce a trovare un equilibrio nel marasma degli stimoli e degli segnali a volti senza significato di cui è piena la vita.
(Renato Minore, presentazione per la manifestazione “Poeti a Castelbasso”, agosto 2007).
Con Roberto Deidier torneremo invece ad assaporare la dimensione del vivere quotidiano, attraversato da qualche rivolo di smarrimento e di anelito passionale, ma articolato in modo sobrio e intenso tramite una pacata e imperturbabile attitudine della visione a fare luce, a ritrovare le tracce di cuciture slabbrate del paesaggio e della città, inaccessibili ad un occhio umano immerso nel caos e nella indifferenza. Un arte tenace e tranquilla della visione consente a Deidier di dirimere la confusione esistente fra luci e ombre inserendo in modo “luminoso” il suo sguardo e la sua vita dentro la realtà e creando una dialettica delicata e pacificatrice in cui la ricomposizione di armonie impossibili o dimenticate della natura agreste e della paesaggio moderno permettono alle stesse ombre interiori del poeta di trovare sfogo in una diversa, anche se sempre elegiaca,espansione del desiderio.
Sin dalla pubblicazione del suo primo libro Il passo del giorno edito da Sestante nel 1995 Roberto Deidier ha stimolato l’interesse degli amanti della poesia grazie ad uno stile ed una personalità che ha fatto della pacata e stabile visione della realtà uno dei suoi attributi principali e più seducenti. Oltre alla sua attività di poeta Deidier unisce anche una intensa attività di ricerca accademica sulla storia della poesia italiana contemporanea che ha ormai all’attivo degli studi fondamentali come Le forme del tempo, Guerini e Associati 1995),dedicato all’opera di Italo Calvino; L'officina di Penna (Archinto, 1997), poeta al quale si è intimamente legata la sua esperienza di poeta-docente grazie alla cura dei carteggi di Sandro Penna con Eugenio Montale (Lettere e minute 1932-1938, Archinto 1995) e con Umberto Saba (Lettere a Sandro Penna, Archinto, 1997). Pur insegnando Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi di Palermo Deidier ha resistito ad ogni tentazione di percorrere gli ideali di una poesia letteraria, avulsa dalla vita e dai palpiti dell’esistenza. Solo che questi palpiti sono da lui vissuti con un certo rigore che sa intessere le geometrie della visione cerchiando e disegnando con austerità fiammante anche i domini recalcitranti della passione. Ne è venuta fuori una poesia che non fugge dal chiaroscuro, ma che si mantiene “eticamente lucida” come ha detto con stringata precisione il poeta Fernando Bandini.
E non è un caso che è il legame tra sguardo e visione ad inaugurare la carriera poetica di Deidier che nel secondo libro Una stagione continua ha trascritto questa frase di Carlo Michelstaedter: Meglio non guardare dove si va che andare solo fin dove si vede. In Deidier il tema della luce coincide con quello della visione che cerca un punto di arrivo mantenendosi salda nei gorghi delle ombre della realtà che non sono per forza le ombre invisibili e spettrali, ma anche la confusione e il marasma della vita sociale o lo smarrimento e lo spaesamento della dimensione passionale. Questo smarrimento emerge da una bella poesia dal titolo La voce ottica tratta da Libro naturale (Edizioni dell'Ombra) edito nel 1999: «Era l’agitazione distratta dei lungofiume,/La fretta che accomuna i mezzogiorni:/Il tuo passo disegnava l’ombra/Di una falcata lunga sotto il sole./Era un bisogno, quella meta».
Mentre la confusione dell’esistenza sociale è evidente in un’altra poesia intitolata Il territorio: «So di vivere in luoghi che riconosco a stento/Quando ogni sera m'accosto allo stesso segnale/E qui al volante mi ricordo quale stagione/Vado vivendo per quanta luce mi riflette:/Sicure sono solo le sagome più strane/Parate d'improvviso lungo la corsia,/Ombre sulla retina di cani mal scampati/O guizzi di gatti e i loro campi di battaglia/ Al cielo delle costellazioni e delle antenne».
Come possiamo vedere Deidier interpreta il motivo della luce e dell’ombra in due modi ben configurati: da un lato egli, più che elaborare una poetica della luce anteposta all’ombra, elabora l’intreccio naturale fra luce e ombra che viene vissuto nel passo veloce di una persona che disegna l’ombra lunga di una falcata compiuta nella straripante e severa luce del mezzogiorno. Oppure nella seconda poesia dove lo spaesamento esistenziale viene tessuto all’interno della vita cittadina, della dimensione del guidare sulla cui greve ordinarietà il motivo della luce crea una ascesa verso spazi più liberanti che trasfigurano la visione. La poesia di Deidier è caratterizzata dalla strenua resistenza della visione circostanziata ma efficace, dalla serenità di una rassegnazione coltivata dentro il riparo dei sensi, come se il semplice potere della visione, della messa a fuoco o della illuminazione del non colto,del marginale, del plumbeo, fosse l’unico mezzo posseduto dal poeta per plasmare il reale e riportarlo ad una dimensione superiore.
Ne abbiamo dimostrazione nella poesia che dà il nome alla recente raccolta del 2002 Il primo orizzonte Edizioni San Marco dei Giustiniani.
Il primo orizzonte:
A un miglio da terra prima dell'alba/Solo questa fusoliera divide il cielo/Fino al primo fendente di sole./Così va disegnandosi il giorno:/Lo spettro lascia esistere crinali/ Lontanissimi e in quella distanza/ È quel che basta ad abbracciare il mondo,/ Questo giorno per noi tutti uguale./Fuori c'è il primo orizzonte,/ Dentro giacche, occhiali, giornali (Il primo orizzonte, p.80).
Qualcuno ha parlato di poesia del piccolo. La poesia intitolata Sosta:
Se un uccello all'improvviso taglia il quadro a mezz'aria, divide il cielo in due. A noi spetta sempre la parte più bassa, quella che ci fa lontani dalle stelle, a pronunciare ogni volta il desiderio d'essere altrove. Di questa contraddizione, il restare e il partire, si nutre ogni volta la nostra sorpresa d'esserci, ritmando una rassegnazione non passiva, e non sa neppure più essere attesa, ma limite oltre il quale è l'immaginazione. Leggere il mondo come unità è il solo modo di vedere oltre la siepe, cantando (Il primo orizzonte, p.67).
Le due dimensioni quella sociale e quella passionale sono confermate dalle poesie che Deidier ci leggerà stasera. Poesie dove appare una Sicilia mitica favoleggiata proprio attraverso i percorsi della visione dapprima offuscata dalle luci dell’autostrada, dal traffico delle macchine che vanno e vengono e che producono uno spaesamento interrotto dal viaggio della visione che accosta al marasma impersonale e innaturale della strada, la festa notturna dell’accendersi delle luci nei paesi della montagna. Questo grumo luminescente della sera spinge Deidier verso pensieri mitici che come in Giuseppe Conte, riportano la grecità nella terra di Sicilia dove il nostro poeta ormai vive e insegna da tempo. Questo sentimento della visione fa sì che una geometria lenta, pacata si espanda nella poesia di Deidier di modo che è l’acutezza della visione ad aprire la strada alla luce perchè è come se fosse lo sguardo del poeta in verità ad illuminare le cose e conferire ad esse un senso nuovo.
Roberto Deidier ci ha fatto navigare nel mare pacato e imperturbabile della visione che dona luce alle cose e che sa far venire fuori dalle ombre della psiche e della realtà un contrappunto raffinato e sottile di espansioni e di restringimenti dai quali l’esistenza riesce a trovare un equilibrio nel marasma degli stimoli e degli segnali a volti senza significato di cui è piena la vita.
(Renato Minore, presentazione per la manifestazione “Poeti a Castelbasso”, agosto 2007).